....Esiste
anche un interessante problema di prospettiva. Chi ha avuto successo tende a pensare che il modo con cui l’ha ottenuto
sia merito. E perciò che meritocrazia voglia dire premiare e promuovere i
suoi simili. Michael Young stesso ha espresso nel
2001 sul Guardian tutto
il suo disappunto verso quella che chiamava la business meritocracy: “Se
i meritocratici credono che l’avanzamento derivi dai loro meriti”, scriveva
Young, “penseranno di meritare tutto
quello che possono ottenere”. Illusione che viene rinforzata dalla
moltitudine di cortigiani, seguaci e profittatori di cui spesso sono circondati.
Il risultato é la formazione di una nuova classe sociale, una nuova élite moralmente
autolegittimata. Insomma
il concetto di “meritocrazia” è
discutibile, e può essere interpretato in modi molto diversi. Quello che
sorprende è che, nato come perplessità, si sia poi diffuso in senso decisamente
positivo. Roger Abravanel nel suo
famoso libro "Meritocrazia" (musa ispiratrice delle meraviglie
dell'ex ministro dell'istruzione che evito per decenza di nominare) definisce
la meritocrazia come “un sistema di valori che valorizza l’eccellenza indipendentemente dalla provenienza”. L’assunto di partenza è che in un sistema meritocratico lo
stato non abbia bisogno di intervenire e garantire le stesse opportunità,
poiché il successo dei migliori è garantito automaticamente dalla competitività
del sistema. I fautori del pensiero meritocratico all’italiana (e sostenitori
probabilmente inconsapevoli delle tesi di Abravanel) sono certi che eccellenza e competitività siano
l’antidoto all’iniquità del sistema italiano e il meccanismo per garantire
giustizia sociale. Questo equivale ad affermare che pur
di assicurare l'avanzamento dei migliori si é disposti a sacrificare l'equitá dell'intero sistema che tradotto nel
linguaggio politico italiano significa mantenere il pieno controllo delle
nomine piú prestigiose (attraverso criteri meritocratici del tutto personali e
stabiliti di volta in volta a seconda dei candidati) a scapito della
trasparenza. In poche parole, il
fine giustifica i mezzi. Siamo quindi giunti al fatidico interrogativo: “Cos’è più importante l’uguaglianza delle opportunità o il risultato
finale?”
Questa interpretazione della
meritocrazia infatti, non affronta le contraddizioni tra garantire il ‘meglio
per i migliori’ e provvedere al ‘meglio
per tutti’. La cosiddetta ‘Riforma Gelmini’, prodotto della
consulenza diretta di Abravanel, fa ampio riferimento alla cultura del merito e
istituisce con l’articolo 4 un "fondo di merito". Tale fondo,
dedicato agli studenti più meritevoli, è alimentato da privati, ma anche da risorse statali provenienti dal diritto
allo studio. Scrive Friedrick Hayek premio Nobel per
l'economia nel 1974: “i premi che una società libera offre per i risultati
conseguiti servono a dire a chi lotta per essi quali sforzi valga la pena di
fare. Tuttavia, gli stessi premi andranno a chiunque produca gli stessi risultati,
senza tener conto dello sforzo” (e di come vengano ottenuti i risultati). I teorici moderni
della giustizia hanno sempre diffidato del criterio del merito se usato per
distribuire risorse. Non perché pensano che ad essere assunto in un ospedale non
debba essere un bravo medico, ma perché mettono in guardia dallo scambiare
l’effetto con la causa: è l´eguaglianza
di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia
non il merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere
privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a
tutti dovrebbe essere concessa un’eguale possibilità di formarsi competenze e
accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per
poter partecipare alla gara della vita. Continua....
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