E’ finita come una storia d’altri tempi, di quando i dittatori se ne scappavano furtivamente in aereo portando in valigetta i numeri dei conti correnti svizzeri. Ben Alì, presidente per 5 volte, sempre con maggioranze vicine al 100 per cento dei voti, con lui la Tunisia è finita al 144mo posto nell’Indice della democrazia dell’«Economist», e «Reporters sans frontières» ha messo il suo regime al 143mo posto, su 173, nella classifica della libertà di stampa. Un mondo di spie, insomma, di affari, e di galere e torture, nel quale il generale dalla faccia pulita si muoveva con la naturalezza di chi sta a casa propria, anche perché, poi, la sua stessa presa del potere era nata da un complotto internazionale di spioni, dove gli agenti di Tunisi avevano avuto una mano d’aiuto dal Sismi. Fino alla sera di quel 7 novembre dell’87, a comandare a Tunisi era stato il vecchio presidente Bourguiba, fondatore dello Stato indipendente dal vecchio dominio francese. Ma, nato padre della patria, il leader del Neo-Destour con il passare degli anni era diventato un nonno della patria, con tutti i tratti tipici della demenza senile. Confortato dagli uomini che il suo ruolo di primo ministro e le sue alleanze di capospione hanno messo ai posti giusti Ben Alì, nella notte tra il 6 e il 7 novembre porta a palazzo un manipolo di professoroni in camice bianco che dichiarano «incapace di intendere e di volere» il semiaddormentato Bourguiba. Annuncio dello stato di emergenza, l’esercito che prende il controllo della tv e delle gendarmerie, e il golpe bianco è fatto. Ma accadde più tardi, nell’ottobre del ‘99, che a Roma, di fronte alla Commissione Stragi, il generale Fulvio Martini, che per 7 anni è stato capo del Sismi sotto i governi Craxi, Fanfani, Goria, e Andreotti, e di storie sporche ha pieni i suoi armadi, riveli che «negli anni 1985-1897 fummo noi Sismi a organizzare un colpo di Stato in Tunisia, mettendo il generale Ben Alì al posto di Bourguiba». C’era aria di crisi, laggiù, spiega Martini, con grossi rischi di dare spazio al fondamentalismo in tutto il Maghreb; noi italiani avevamo interessi seri, e il capo del governo Craxi e il ministro degli Esteri Andreotti ci diedero direttive precise. «Ci fu il cambio di potere senza spargere una goccia di sangue» e, un mese dopo il golpe bianco, il presidente dell’Eni, il socialista Reviglio, viaggiava a Tunisi accompagnato da Craxi, a firmare un importante accordo industriale e finanziario.Tutta la presidenza di Ben Alì trascorrerà tra quest’irresistibile attrazione per gli affari e però, contemporaneamente, l’ambizione di fare della Tunisia un paese moderno, aperto agli investimenti, spinto a sganciarsi dal sottosviluppo. Ma la corruzione, estesa, endemica, pilotata dallo stesso Palazzo, segna ogni pagina - anche la più marginale - del processo di modernizzazione, e alla testa pare porsi con le sue sfrenate ambizioni la stessa Presidenta, la moglie Leila, inseguita oggi dall’odio di tutto il paese in festa, che fa di lei la «Padrina» della mafia che dai saloni del Palazzo comandava tangenti e flussi sporchi di denaro illegale. All’estero, il generale dal viso pulito e la Padrina ora aspettano soltanto che li si dimentichi. Ma a Tunisi, in un paese dove la speranza dev’essere reinventata, i giudici preparano i loro incartamenti d’accusa. Sono storie senza geografia.
Mimmo Càndito
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